È in una minuscola contrada di Brione, un piccolo paese tra montagna e collina, a nord ovest di Brescia e Gussago, che trovate la cucina variabile e imperfetta della trattoria tradizionale innovativa La Madia.
Ondeggiando, si sale da Gussago o da San Giovanni di Polaveno, in un chiaroscuro di boschi, castagneti e prati con meli e ciliegi e mentre l’aria si fa più sottile, si arriva. La trattoria è adagiata su una terrazza suggestiva tra il cielo e l’anfiteatro delle colline della Franciacorta e lo sguardo di chi arriva si perde nel paesaggio. Nei giorni sereni lo sguardo può spaziare sull’immensa pianura padana, da Milano agli Appennini e nei giorni più limpidi si può vedere spuntare il Monte Rosa e il Monviso.
A volte invece, se il tavolo a voi riservato è quello sotto il portico, vi sembrerà di affacciarvi su un lago bianco di nebbia che avvolge i vigneti e i piccoli borghi sottostanti. Ed è così che il paesaggio, cornice di questa trattoria, è in continuo movimento e scorre tra le stagioni, come la cucina viva che propone.
Dall’aspetto esterno e dall’insegna sembrerebbe una antica osteria di paese che prede il nome dalla credenza con un ripiano utilizzata un tempo per impastare il pane e che all’entrata puoi trovare imponente ad accoglierti, ricoperta di vasi per la fermentazione; in realtà questa trattoria è un miscuglio di tradizione e innovazione che si spalancano già sulla soglia.
In una sala spaziosa i tavoli di legno scuro, con i dettagli curati nei piatti e nei bicchieri, disegnano eleganza, come il modernariato alle pareti e la luce diffusa da grandi finestre, ma è al di là dei battenti socchiusi della cucina che lo chef proprietario Michele Valotti e i suoi compagni di viaggio, scelti con cura, si appassionano alla ricerca, alla sperimentazione e alla tradizione.
La sera che scelgo di andare alla Madia è una di quelle calde dell’estate, non è la prima volta, ma è come se lo fosse. So che niente sarà già assaggiato, niente già conosciuto, alla Madia non si replica quello che è già stato fatto. Siamo in quattro al tavolo che si affaccia sulle colline e già nella scelta del percorso da 7 portate o 10 portate, proposto con prezzi di 38 e 45 euro, si entra in un’esperienza che lascia alle spalle i piatti rassicuranti del menu alla carta. Con curiosità e apertura mentale scegliamo il menù da dieci portate, quale saranno le tradizioni ancestrali e le tecniche inusuali che ci guideranno? Incantati da questo percorso, inizia il viaggio.
Un percorso che si snoda tra le ardite sfumature dell’acido dell’ umami del miso, delle fermentazioni, degli affumicati, degli antichi condimenti, come il Garum, rielaborazione di un condimento dell’antica Roma a base di pesce, sapientemente accostati, o meglio, mescolati alle varietà di farine di grani antichi macinati a pietra, alle verdure stagionali, alle erbe e bacche selvatiche, agli odori e ai germogli alle carni di animali allevati in libertà, ai formaggi a latte crudo dei piccoli produttori artigianali. Anche le bevande sono alternative e i vini proposti biodinamici e naturali.
E mentre Silvia, per ogni piatto, svela e spiega gli ingredienti, la tracciabilità, la metodologia produttiva e la tecnica utilizzata nella ricetta, nei commensali si srotola quel filo rosso, diverso per ognuno, che rende gli assaggi un’esperienza soggettiva da sperimentare.
In questa sera, in questo menù, il mio filo rosso è il ritrovare quel legame ancestrale e quasi magico che mi stringe alle erbe selvatiche e ai frutti del bosco, a quel preciso albero, a quella precisa bacca. La tavola e la terra, la natura e i legami affettivi, la memoria della cultura più profonda del nostro territorio, quella che riscopre il valore antico della consuetudine condivisa, di nonne, madri e figlie, di realizzare piatti, infusi e liquori a base di erbe selvatiche: Zucchina, Melanzana e Scarola
Il nome delle prime portate è essenziale, ma in queste semplici verdure dell’orto fanno capolino ingredienti inusuali, foglie di erbe selvatiche come la castalda, gocce di porro nero, sciroppo di gemme di pino mugo, e limone fermentato, un ricerca che irrompe e travolge il tradizionale.
Risotto, rapa rossa, fatuli
Cappelletti ripieni di anatra, tom kha kai
Pignette
I primi sono invece un crescendo di sensazioni visive e timbri gustativi che accostano elementi di ispirazione tailandese e giapponese con la ricchezza del bosco e delle valli. Si assaggia il fatulì della Val Saviore con gel di limonee di genziana, lo zenzero appoggiato alla scorza di arancia candita di Corrado Assenza e farine di pigne con pesto di germogli di abete.
Pecora tataky
Vacca giugno 2021
Manzo al karkadè
In questi secondi la diversità delle carni è la possibilità data ai commensali di sperimentare consistenze e tagli forse mai provate, date da tecniche di frollatura e doppia fermentazione. E anche in questi piatti il filo rosso porta alla terra, all’utilizzo antico di ciò che il prati e boschi offrono, trasformando i fiori di ibisco nella salsa al karkadè, sminuzzando bacche di sorbo e raccogliendo more di gelso nero, ormai quasi sconosciuto, per una crema che rivive.
Cioccolato
Una sola parola racchiude il piatto dolce: il cioccolato. Proposto in consistenze diverse, sa incontrare l’amaro della foglia di achillea in un contrasto immediato e piacevole, accompagnandoci così alla fine del percorso.
Le dieci portate di questa sera, servite con discrezione, ci hanno guidati ,in questo modo, alla ri-scoperta delle sensazioni che il cibo offre e alla bellezza di lasciarsi trasportare in percorsi nuovi.
Anche il caffè è una sorpresa , lascia la scelta tra i caffe delle piantagioni, e gli ultimi dolcetti in un piattino , come piccole coccole insolite, ci sembrano trattenere ancora un po’ in questa esperienza e insieme socchiudere questo viaggio.
Alla Madia questa sera il tempo si è fermato e dietro i vetri il crinale delle montagne si staglia nero contro il cielo, finiamo le ultime chiacchiere e portiamo con noi il foglio del menù e il Manifesto di cucina viva, da leggere con calma, a casa, per capire in profondità la filosofia di Michele e la sua capacità di proporre abbinamenti e tecniche diverse per emozioni sempre nuove.
E in un ultimo sguardo alla cucina, saluto con la mano Enrico, il figlio di Michele e Silvia, che alla fine degli studi in filosofia decide di esserci, in questa piccola grande trattoria tra la terra e il cielo
Giovanna Peli